Artroprotesi d'anca per via anteriore miniinvasiva

Introduzione

La chirurgia protesica dell’anca è una pratica ormai consolidata, ed è in grado di assicurare risultati funzionali eccellenti ad un sempre maggior numero di pazienti, grazie anche all’incessante evoluzione degli impianti e delle tecniche chirurgiche che ha contraddistinto l’ultimo ventennio.
Fermo restando che il corretto posizionamento dell’impianto costituisce la premessa indispensabile per la longevità della protesi, la Tissue Sparing Surgery (chirurgia con risparmio dei tessuti), intesa non solo come conservazione del bone-stock (quantitativo di osso) ma anche come risparmio dei tessuti molli (fascie, muscoli, legamenti, capsule articolari) ha assunto un ruolo sempre più preminente tanto da far parte del bagaglio culturale del moderno Ortopedico.
Questa assume ulteriore valenza oggi che le indicazioni si estendono a pazienti sempre più giovani e che inevitabilmente presentano richieste funzionali sempre maggiori.
Ecco che la chirurgia mininvasiva applicata ad un’articolazione cosiddetta maggiore, come l’anca, diventa di grande attualità.
A mio modesto avviso, la via anteriore diretta, è quella che attualmente, tra tutte le vie mininvasive, risponde ai requisiti di mininvasività intesa come rispetto delle strutture anatomiche che sono alla base del recupero funzionale precoce.
La riduzione del dolore e la conseguente mobilizzazione attiva dell’arto operato nell’immediato postoperatorio sono eclatanti.
I pazienti il giorno successivo all’intervento vengono fatti camminare con carico totale, la riabilitazione è agevole ed il periodo di ospedalizzazione è notevolmente ridotto.
Questo ha suscitato e sta suscitando curiosità e interesse sempre crescente nei pazienti che vedono in una minore aggressione chirurgica una risposta alle loro necessità e alle loro attese. I pazienti sono cambiati nel senso che sono cambiati i loro bisogni e le loro aspettative. Un tempo l’obiettivo dell’intervento era togliere il dolore. Oggi le condizioni sociali, ambientali e di relazione fanno si che il paziente tenda ad essere sempre attivo, autosufficiente, reintegrato nel mondo del lavoro: ha bisogno quindi di una chirurgia immediata e veloce che gli consenta un rapido ritorno alle sue normali occupazioni.
Quindi è facilmente intuibile lo straordinario impatto economico e sociale che questa tecnica chirurgica può avere.

La tecnica chirurgica

La mia tecnica chirurgica si rifà al cosiddetto accesso anteriore di Hueter modificato secondo i più moderni concetti di miniinvasività e di risparmio dei tessuti.
I punti di repere sono costituiti dalla spina iliaca antero-superiore (SIAS), dalla porzione più prominente del gran trocantere e dal bordo laterale della rotula.
L’incisione inizia due centimetri distalmente e due centimetri posteriormente alla SIAS e prosegue per circa 8-10 cm lungo la retta congiungente il bordo laterale della rotula (foto 1).
Caricando lateralmente le fibre del tensore, compare la porzione prossimale del retto del femore che viene, a sua volata, caricato medialmente e si visualizza la sottostante fascia innominata.
Questa viene incisa longitudinalmente facendo attenzione a preservare, per poi isolare e legare, i rami ascendenti dell’arteria circonflessa laterale (foto 2 e 2 bis).
Giunti così al piano capsulare si esegue l’artrotomia con una incisione ad “U” ottenendo così un lembo a base mediale; questo lembo ha una duplice funzione: a) protegge le strutture muscolari sovrastanti durante la preparazione del cotile b) fa contemporaneamente da divaricatore permettendoci di non utilizzare una leva che ci creerebbe problemi di spazio durante l’introduzione della fresa e delle componenti acetabolari sia di prova che definitive (foto 3).
Eseguita l'osteotomia della testa (cioè il taglio e la rimozione della testa femorale malata) si passa alla preparazione dell'acetabolo utilizzando frese di dimensioni crescenti e adeguate al modello di protesi scelto. Ottenuto il substrato osseo adeguato, dopo abbondante lavaggio, si esegue l'impianto della protesi cotiloidea (coppa acetabolare).
Si passa quindi al tempo femorale. Il primo passaggio prevede una lieve adduzione ed extrarotazione dell’arto operato ed il posizionamento delle leve necessarie ad esporre la superficie ostoetomica e ad eseguire la capsulotomia posteriore (foto 4) che l’operatore eseguirà gradualmente fino a quando riterrà necessario.
Inizia ora la preparazione del canale femorale utilizzando le raspe adeguate al modello di protesi scelto.
Prima di impiantare la componente femorale definitiva, si esegue naturalmente la riduzione dell’impianto provvisorio, i test di stabilità, mobilità e lunghezza (foto 5).
Giudicati validi i test eseguiti si potrà procedere all’impianto delle componenti definitive.
Terminato l’impianto, testiamo nuovamente la stabilità articolare e la lunghezza degli arti. Eseguiamo quindi un abbondante lavaggio pulsato ed iniziamo la procedura di chiusura della ferita chirurgica.
Rimossi i retrattori, i ventri muscolari (m. ileopsoas, m. retto femorale, m. sartorio, m. tensore della fascia lata) collabiscano spontaneamente (foto 6).
Procediamo con la sutura a punti staccati riassorbibili della fascia superficiale e dello strato sottocutaneo ed infine della cute (foto 7).

Decorso post operatorio

Dopo l'intervento, la degenza nel reparto chirurgico è variabile in funzione dell'età, delle malattie coesistenti, della capacità di seguire il programma riabilitativo. Il dolore postoperatorio è abitualmente lieve.
La mobilizzazione attiva deve iniziare non appena termina l'effetto dell'anestesia. La deambulazione inizia in prima giornata, con l'ausilio di stampelle e caricando l'arto operato. E' possibile eliminare le stampelle precocemente, non appena il paziente le avverte come un ingombro.
Anche il ritorno alla vita normale (guidare l'auto, andare in bicicletta, lavorare) viene lasciato alla discrezione del paziente.
Per 30 giorni dopo l’intervento, per prevenire il rischio di trombosi venosa, si dovrà fare uso di calze elastiche e proseguire il trattamento con eparina a basso peso molecolare sottocute iniziato in Casa di Cura. Il personale insegnerà a Lei o ad un familiare come eseguire il trattamento, che è molto semplice, a domicilio.

Prognosi

Le protesi attualmente disponibili hanno una sopravvivenza media di circa 15 anni, ma la variabilità individuale è grandissima. Il peso corporeo e il livello di attività fisica sembrano incidere in modo determinante sulla durata dell'impianto. Questo fa si che un paziente anziano, magro e con basse richieste funzionali possa ragionevolmente ritenere che il suo impianto sia "per sempre". Non così un giovane attivo e sovrappeso, per il quale il rischio di andare incontro ad un intervento di riprotesizzazione è concreto.
Nella maggior parte dei casi è possibile ritornare alle normali attività quotidiane, comprese quelle attività che contribuiscono alla qualità di vita. Per i pazienti più giovani, lo sport è sicuramente tra queste, ma in questo campo è necessario fare delle precisazioni.
La protesi d'anca, eliminando il dolore, si presta ad incentivare il paziente a riprendere le attività sportive che aveva da tempo interrotto. La mancanza di dolore durante una corsa, però, non significa che questa non sia potenzialmente dannosa per l'impianto protesico. In effetti tutti gli sport che comportano la corsa o il salto (jogging, volley, basket, calcio...) determinano violenti e ripetuti impatti della testa protesica nella coppa, con conseguente incremento dell'usura. Sono dunque sport assolutamente sconsigliati.
Un'ulteriore considerazione meritano gli sport a rischio di trauma, perché eseguiti in velocità (sci alpino, ciclismo) o a distanza da terra (equitazione). Il paziente che vi si cimenti deve ricordare che un incidente, magari provocato da terzi, può avere gravi ripercussioni sulla propria protesi. Insomma ci vuole prudenza, conoscenza dei propri limiti e delle condizioni ambientali.
In conclusione gli sport ai pazienti protesizzati non sono vietati, purché siano praticati soltanto ad un livello ludico-ricreativo e siano intrapresi con discernimento, privilegiando quelle attività (come il nuoto, il golf, la ginnastica) che incidono poco o nulla sull'usura dell'impianto e non espongono a situazioni pericolose.

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